Il Concerto di Colonia di Keith Jarrett: una metafora delle possibilità umane
Sono trascorsi quasi cinquant’anni dalla serata del 24 gennaio del 1975 quando Keith Jarrett, pianista jazz, cresciuto alla corte dei Jazz Messengers di Blakey, di Charles Lloyd e di Miles Davis, si esibì all’Opera Colonia in quello che sarebbe poi divenuto per tutti il “Concerto di Colonia”, la cui registrazione è in grado ancor oggi di suscitare grandi echi nel cuore e nella mente di chi ascolta.
Ma la straordinarietà di quell’evento sta tutta nel “momento”, nella capacità di Jarrett di vivere la musica nel qui e ora, in spirito di totale improvvisazione, alla ricerca della bellezza e del canto dell’anima. Se ne accorsero il pubblico presente al concerto, i critici musicali e i discografici, ma anche lo stesso Keith Jarrett, a lungo recalcitrante sulla possibilità di trascrivere in musica il concerto.
La serata era cominciata in grande ritardo perché Jarrett aveva domandato che sul palco fosse portato uno Steinway, il suo pianoforte preferito, ma non era stato possibile esaudire la sua richiesta. Il musicista allora avena domandato in sostituzione uno dei due Boesendorfer che erano dietro le quinte, ma gli fu messo a disposizione l’altro, che non era stato nemmeno revisionato e che conservava qualche incertezza nei timbri. Keith Jarrett accettò la sfida e il risultato fu il celebre “Köln Concert”, icona di una musica in grado di essere apprezzata da musicisti esperti e semplici ascoltatori.
Il Concerto di Colonia può essere letto in chiave metaforica: il protagonista della vicenda si trova a vivere un’esperienza caratterizzata da presupposti che non corrispondono alla sua volontà (il pianoforte non è quello desiderato!) ma accetta la sfida e si cala nell’azione, immergendosi nelle possibilità del momento e valorizzando al massimo il sapere (le conoscenze musicali, in questo caso), frutto della sua esperienza. Il tutto in chiave non solo di improvvisazione ma di esplorazione delle possibilità espressive. La performance di Keith Jarrett del 24 gennaio 1975, proprio perché vive nel qui e ora, è lì a indicarci simbolicamente che ciascun essere umano ha la possibilità, nelle diverse esperienze del vivere, di fluire nel momento e di esprimere il valore assoluto della realtà.
Ma la straordinarietà di quell’evento sta tutta nel “momento”, nella capacità di Jarrett di vivere la musica nel qui e ora, in spirito di totale improvvisazione, alla ricerca della bellezza e del canto dell’anima. Se ne accorsero il pubblico presente al concerto, i critici musicali e i discografici, ma anche lo stesso Keith Jarrett, a lungo recalcitrante sulla possibilità di trascrivere in musica il concerto.
La serata era cominciata in grande ritardo perché Jarrett aveva domandato che sul palco fosse portato uno Steinway, il suo pianoforte preferito, ma non era stato possibile esaudire la sua richiesta. Il musicista allora avena domandato in sostituzione uno dei due Boesendorfer che erano dietro le quinte, ma gli fu messo a disposizione l’altro, che non era stato nemmeno revisionato e che conservava qualche incertezza nei timbri. Keith Jarrett accettò la sfida e il risultato fu il celebre “Köln Concert”, icona di una musica in grado di essere apprezzata da musicisti esperti e semplici ascoltatori.
Il Concerto di Colonia può essere letto in chiave metaforica: il protagonista della vicenda si trova a vivere un’esperienza caratterizzata da presupposti che non corrispondono alla sua volontà (il pianoforte non è quello desiderato!) ma accetta la sfida e si cala nell’azione, immergendosi nelle possibilità del momento e valorizzando al massimo il sapere (le conoscenze musicali, in questo caso), frutto della sua esperienza. Il tutto in chiave non solo di improvvisazione ma di esplorazione delle possibilità espressive. La performance di Keith Jarrett del 24 gennaio 1975, proprio perché vive nel qui e ora, è lì a indicarci simbolicamente che ciascun essere umano ha la possibilità, nelle diverse esperienze del vivere, di fluire nel momento e di esprimere il valore assoluto della realtà.
Foto di Valentino Funghi su Unsplash